Baxter e gli altri

Fabbriche e robot: Baxter e gli altri

Baxter ha due lunghissime braccia rosse d’acciaio e un volto sempre sorridente. Il viso è un monitor su cui appaiono gli occhi e una bocca che si piega in una smorfia triste solo in caso di malfunzionamento. Da quando fu presentato, 3 anni fa, dal suo inventore – Rodney Brooks, ex docente di robotica al MIT di Boston e fondatore della Rethink Robotics – Baxter è diventato un caso. Non tanto per ciò che è in grado di fare sulla catena di montaggio, quanto per il concetto di operaio-macchina che incarna: Baxter è il primo robot prodotto in serie capace di lavorare a fianco all’uomo, condividendo gli stessi ambienti.

Fino a oggi i robot industriali, macchine velocissime e potenti – che se urtano un operaio possono ucciderlo – erano installati in celle chiuse, dove l’accesso è vietato. Baxter costa circa 20.000 dollari, poco perfino rispetto alla manodopera asiatica, la meno pagata al mondo. Non si ammala, non deve andare in bagno, non sciopera. Secondo Brooks sarà la macchina che riporterà negli Stati Uniti tutto il lavoro che negli ultimi decenni è stato decentrato all’estero. Un mito o una speranza?

Baxter, comunque, non è solo. Sono in arrivo anche altri robot operai in grado di lavorare a contatto con le persone, di cui avvertono la vicinanza grazie a complessi sensori. Si sta quindi sempre più affermando il concetto di fabbrica robotica “aperta”, in cui uomini e macchine cooperano in sicurezza. Per arrivare a sviluppare macchine di questo tipo ci sono voluti quasi 70 anni.

La liberà dei robot moderni

Il primo robot industriale fu lo Unimate, usato dalla General Motors dal 1961. Pochi potevano permetterselo e il suo uso rimase confinato a pochi complessi produttivi finché sono arrivati giapponesi, tedeschi e italiani a rivoluzionare l’idea di robot industriale. Questa trasformazione, avviata negli anni ’70, è stata determinata da due fattori: l’introduzione dell’elettronica e l’avvento dei motori elettrici miniaturizzati.

La prima ha consentito di automatizzare e programmare i movimenti e le funzioni dei robot, i secondi hanno permesso di muoverli in maniera più agile e con minor consumo di energia. Prima una macchina industriale era attivata da un solo motore esterno; nella nuova concezione era invece mossa da più attuatori elettrici, efficienti e leggeri, posizionati nei punti di snodo del robot e attivati solo quando necessario.

Nacquero così i primi bracci robotici a due o tre assi di movimento, simili nei movimenti a un braccio umano e perciò definiti “antropomorfi”. «Oggi – spiega ancora Baroncelli – i moderni robot industriali antropomorfi sono macchine leggere, velocissime e potenti, con 6 o 7 gradi di libertà, in grado di manipolare qualsiasi oggetto o compiere ogni movimento con estrema precisione».